venerdì 10 febbraio 2017

Ho visto Presa Diretta-Popolari


http://www.presadiretta.rai.it/dl/portali/site/puntata/ContentItem-8cec7ce6-6db0-4c96-8d9f-133734a26da6.html




Il Web, una trappola terribile.

Ho visto in tv Presa diretta del 6/02/2017. Il tema: la patologia del web, i giovani schiavi o vittime di internet.
Il servizio, ben fatto, esamina prima il fenomeno dei popolari,  cioè quei giovani più intraprendenti o smaliziati, che si sono inventati una presenza sulla rete, più o meno utile e intelligente, ma capace di creare un enorme seguito di followers, più invasati e fragili dei fans dei Beatles d’antica memoria. In alcuni casi, i siti e i video in rete, rasentano addirittura il fenomeno, cosiddetto virale, con milioni di visualizzazioni.
Partendo dal famosissimo “andiamo a comandare” dell’astuto Fabio Rovazzi, che ha totalizzato più di cento milioni di clic, in tutto il mondo, (e di gente rincoglionita), si assiste a svariati esempi di video che catturano l’interesse degli utenti del web.  Incredibilmente, più il video è superficiale e privo di contenuti, ma accattivante, più fa proseliti. Ci sono individui, maschi e femmine, che sono riusciti a crearsi un vero e proprio lavoro, comunque un impegno, postando sui social network, come Facebook, la propria intimità, immagini, per lo più, delle proprie attività, con l’obiettivo di condividerle il più possibile con chi passa molto tempo sulla rete. La massima aspirazione di questi attivisti del web è poter condividere finanche le emozioni. Mi chiedo con sarcasmo se qualcuno non arrivi a mostrarsi pure quando è seduto sul water.
Chi riesce ad avere un seguito importante diventa anche appetibile per trasmettere messaggi pubblicitari, più o meno subliminali, e quindi viene cercato dalle Aziende che hanno ben compreso e fatto proprio il linguaggio e i codici di comportamento della generazione moderna. Così, volente o no, anche quel maneggione informatico, definito youtuber diventa un granello dell’ingranaggio economico che finisce per stritolare o assimilare una quantità inimmaginabile di giovani. Si parla in termini di milioni, non certo di minoranze. E sono nate nuove aziende che scandagliano il web in cerca di nuovi utili “talenti”, capaci di affascinare produttivamente. Sfiora il 90% il numero di giovani tra i 9 e 18 anni che sono su Facebook, facili prede della “nuova frontiera della pubblicità”.
Ci sono pure i selfiekillers che postano le loro imprese, vere e proprie sfide di situazioni estreme, inerpicati su alte strutture, a cavalcioni di travi dei più alti grattacieli o su picchi pericolosi, comunque in condizioni di serio pericolo, ed infatti ogni anno si contano a decine le vittime, lo scorso anno ben 73!
Infine c’è il capitolo dei videogiochi, apparentemente meno cruento, se non si arriva alla completa immedesimazione nei personaggi fantastici proposti in rete, per cui il gioco, totalizzante,  può legare un giovane al proprio computer per più di 10 ore al giorno, per tutti i giorni, fino a farlo diventare dipendente come da una droga. Si sono visti ragazzi e ragazze, mascherati secondo le sembianze dei loro eroi preferiti, assumere totalmente quelle identità, e sentirsi gratificati per essere riconosciuti come tali. Praticamente una vera e propria spersonalizzazione e assunzione di identità virtuale, qualcosa molto vicino alla schizofrenia.
La cosa più tragica è vedere come ci siano pure genitori inorgogliti dalle capacità premature dei propri figli, che già a 3-4 anni sanno smanettare sul pc, meglio di loro; genitori che non si rendono conto della trappola terribile, di come così inizi per i loro figli un processo mentale di avviamento ad un mondo virtuale, dal quale potrebbero non uscirne più.
Tutto questo, che l’inchiesta illustra nella prima parte, è il concetto di popolarità, esseri famosi in rete, che per qualcuno è business e gratificazione, ma per molti altri diventa motivo di crisi e di malattia, anche se l’incipit è sempre da cercarsi nell’incapacità di affrontare la realtà, di cui se ne ha una gran paura. In questo processo, spesso è anche l’assenza di riferimento dei genitori, che in qualche caso, specie per i più piccoli preferiscono vederli impegnati, tranquilli, sul loro pc piuttosto che in giro per casa a creare problemi o fare domande difficili.
Oltre agli afflitti da psicopatologie del web, che nei casi più gravi arrivano al cosiddetto ritiro sociale, chiudendosi in casa, nella propria stanza, senza più uscirne per giorni infiniti (ma qualcuno che passa loro il cibo c’è!), ci sono quelli che al confronto con i popolari si sentono inadeguati, e cadono in depressione.
Poi, incredibile da immaginare, ci sono anche coloro che amano farsi del male, ovviamente in video pubblici. C’è chi si tagliuzza, sempre più in profondità, braccia e gambe; chi si fa gettare addosso acqua bollente con dolorosissime ustioni, nel più assurdo trionfo del masochismo da spettacolo.
In definitiva la patologia che colpisce questi giovani, che incapaci o timorosi di affrontare la realtà, si rifugiano in quella virtuale, apparentemente più facile, è dovuta a vari motivi di sofferenza, che comportano crollo degli ideali, mancanza di fiducia nel proprio futuro, nei genitori e negli amici, e insomma una specie di complesso d’inferiorità.
Complesso di cui io, nella mia adolescenza, ho sofferto, ma che non essendo negli anni 60 ancora in auge il mondo globale di internet, mi ha permesso di uscirne, soffrendo sì, pensando pure al suicidio, ma in definitiva grazie alla costante presenza concreta degli altri. Di questo, purtroppo oggi i giovani depressi non possono godere, essendo venuta meno la presenza fisica degli amici, perlopiù presenti solo virtualmente e superficialmente sul web.
In conclusione, rinnovando i complimenti per il programma dell’ottimo Riccardo Iacona, che puntualmente rivela le brutture e nefandezze di questo mondo globale seriamente ammalato, che mentre da una parte erige muri contro la libera circolazione degli esseri umani, dall’altra favorisce la circolazione e diffusione, dagli schermi grandi e piccoli, di germi micidiali per le menti delle nuove generazioni, non posso che concludere che al peggio non c’è limite.


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