Sempre più confuso ma
anche emozionato, si sentiva come Dante che segue il suo Virgilio, muto, in
paziente attesa della nuova sorprendente scoperta, Lino seguì la sua guida che
nel frattempo si era staccata e lo precedeva manifestando una certa animazione.
Si accorse che erano arrivati in una zona della città che non conosceva;
imboccarono una stradina, forse privata, ai lati della quale si vedevano poche
isolate villette, e si fermarono alfine davanti a una porta d’ingresso azzurra
di una curiosa casetta. Di lato e sul retro
s’intravedeva un giardinetto recintato con una staccionata di legno, anch’essa
dipinta di azzurro, o di celeste? (aveva sempre avuto quel dubbio).
Appena dentro si rese
conto che anche l’interno era particolare, fantastico, così come prima
impressione; e mentre si accingeva a osservare con più attenzione, Beatrice gli
si rivolse con uno di quei sorrisi micidiali:
-Io vado un attimo di
là, scusami. Intanto tu accomodati, mettiti a tuo agio, io torno subito eh caro
Lino-. E così dicendo gli diede un buffetto sulla guancia per poi sparire
dietro una grande tenda a riquadri biancoazzurri, che copriva una parete.
Il giovane allora poté
dedicarsi all’esplorazione di quanto gli stava intorno. Si trovava in una
grande stanza, non proprio quadrata, sembrava più un trapezio, anzi si trattava
di un poligono con cinque pareti, cioè un pentagono. Infatti, di fianco alla
porta d’ingresso c’era la parete con la tenda oltre la quale era scomparsa la
ragazza, subito appresso, obliqua, l’altra parete, piuttosto particolare. Era in realtà un muro
grezzo, con intonaco grigio, scrostato qua e là, al centro del quale
campeggiava una grande fotografia in bianco e nero di un uomo e una donna, visti da dietro, che si baciavano.
Molto bella, ma
enigmatica nella sua solitudine su quella parete spoglia. Proseguendo
nell’esplorazione, la parete successiva, quella di fronte alla porta d’ingresso
appariva ancora più strana, perché sembrava addirittura che non ci fosse,
meglio, non si vedeva in quanto lo sguardo si perdeva in mezzo a una cortina di
tende trasparenti, specie di velari multicolori, sovrapposti. Erano colori pastello,
tenui, sfumati che si fondevano mirabilmente in un gioco cromatico che dava una
sensazione come di vuoto, di spazio, quasi di vertigine.
Lino a fatica distolse
lo sguardo per continuare lo studio di quell’incredibile ambiente. La parete di
lato, diritta e più lunga, a prima vista appariva abbastanza normale, anche se
era dipinta a metà: una parte bianca, dove si apriva una finestra con le ante
di legno, di colore azzurro, di quelle con un foro al centro a forma di cuore,
e con tendine ovviamente rosa.
“Proprio come le casette
delle favole” pensò divertito “Una vera casa di fata, della mia fata turchina!”
L’altra metà della parete era rossa. Osservando meglio, più da vicino, si
vedeva tutto intorno alla finestra un lungo filo rosso, che si avvolgeva su se
stesso in una infinità di giri più o meno larghi e si dipanava con ampie volute
interrotte da angoli acuti, da cui pendeva flaccido e molle lungo il muro,
formando incredibili disegni, per poi continuare verso il fondo della parte
rossa. In certi tratti il filo
si mimetizzava avendo lo stesso colore del muro, per cui non era facile capire
immediatamente che in realtà partiva proprio da quel lato. Infatti alla sua
base c’era un buco, come quello dei topini nei films di Walt Disney, da cui appunto usciva il filo rosso, che poi proseguiva lunghissimo formando
quei ghirigori fino alla finestra.
“Sembra il filo di
Arianna” si trovò ad ipotizzare, mentre alzando lo sguardo si accorse che
l’illuminazione notevole della stanza era data da una varietà di lampadari di
fogge diverse, sospesi il più in alto possibile vicino al soffitto; non tutti
accesi, ma ognuno con il suo interruttore che pendeva a portata di mano. Ebbe
l’impressione di trovarsi in uno di quei negozi dove vendono appunto oggetti
per l’illuminazione.
“Certo che è originale
sta ragazza” pensava con un misto
di meraviglia e
d’inquietudine. E già cominciava a chiedersi che fine avesse fatto l’inquilina
di simile magione, quando la sua attenzione si soffermò sulla parete della
porta d’ingresso, che aveva guardato di sfuggita e vide qualcosa che prima non
aveva notato. Il muro intorno alla
cornice dello stipite presentava una quantità di piccoli fori, tanti bucherelli
come se fosse stato oggetto di una scarica di mitraglia, e vicino a ogni foro
si leggeva a malapena un numerino.
Al giovane venne in
mente quel gioco enigmistico in cui bisogna unire i puntini per vedere cosa
apparirà. Stava per fare qualche supposizione quando si accorse che un po’ più
in alto dello stipite della porta c’era una mensola azzurra e sopra vi stavano
posati: Un cappello nero da uomo, due bicchieri lunghi, di quelli per lo
champagne e una borsa di pelle scura, che sembrava pure da uomo.
A questo punto Lino
aveva appena ripreso a fare congetture, quando la tenda a scacchi si scostò e
finalmente apparve lei, la fata turchina. Indossava un complicato abito a frange e pendagli dorati, con una lunghissima
cerniera sul davanti. Ma ciò che colpì immediatamente il giovane, che la
guardava con un’espressione allocchita, fu la trasparenza del vestito e di
conseguenza le meraviglie di quel corpo messe in mostra.
Beatrice, con un largo
sorriso cominciò ad avvicinarsi a Lino, che inspiegabilmente, forse per un
riflesso automatico, prese ad arretrare. Poteva essere un gioco ma il cuore gli
batteva forte, si sentiva in un bagno di sudore e la fronte sembrava diventata
un forno.
Era con le spalle al
muro, o meglio alla parete fantasma e mentre lei continuava ad avvicinarsi,
sorridendo sorniona, spingendolo praticamente verso il fondo, lui si sentiva le
gambe molli e arretrava continuamente finché non si trovò in mezzo alla
cortina, avvolto da ogni parte da quelle tende leggere. D’un tratto urtò
qualcosa di duro e mentre con le mani annaspava goffamente cercando un
possibile appiglio, finì per cadere rovinosamente all’indietro. Ma non cadde
sul pavimento, come aveva temuto, bensì su qualcosa di morbido, che poi
realizzò trattarsi di una specie di letto.
Intanto Beatrice, che
l’aveva incalzato d’appresso, era scoppiata in una fragorosa risata, la sua
bella bocca mostrava una fila di denti bianchissimi, che lui si trovò,
stupidamente, a paragonare a quelli di un personaggio dei cartoons che lo aveva
sempre suggestionato.
Poi sempre più
frastornato,abbattuto su quel letto, vide la ragazza sporgersi verso di lui,
sempre più vicino, finché gli fu impossibile non fissare il suo sguardo acceso
su quelle due macchioline scure tondeggianti, comunemente chiamate capezzoli....
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